Il Vasari a Scolca

Da Scolca si innalza un canto vertiginoso di bellezza, si eleva a sbarramento di tutto l’orrore, di tutto il sangue che dilaga, di tutto il male del mondo attorno.
Nel 1544, un secolo dopo la morte di Polissena Sforza, diventa abate Giovan Matteo Faetani. E Faetani s’intende assai d’arte e di bellezza. Cosicché ne riempie Scolca. Fa decorare la chiesa con festoni di alloro e di mirto, all’uso degli olivetani. Di più! Fa realizzare statue di stucco. Di più! Lui ama e capisce l’arte al punto da essere amico di uno dei maggiori artisti del Rinascimento: Giorgio Vasari. Anzi, il Vasari lo stima e si fida tanto di lui da affidargli -niente meno!- la revisione del suo capolavoro: Le Vite, il primo trattato di storia dell’arte della storia (e uno dei più importanti di sempre).

Anche Faetani, ovviamente, si fida del Vasari. E gli affida un dipinto: l’adorazione dei magi.
E il Vasari accetta. E dipinge. Un capolavoro. Un capolavoro vertiginoso. Vertiginoso e assurdo.

Come ve la immaginate un’adorazione dei magi? Con una desolata e cadente capannetta, con una solitaria grotta? Con i tre vegliardi che portano oro, incenso e mirra procedendo ordinati, quieti e solenni? Niente di tutto questo! L’adorazione del Vasari è una sorta di calca, una bolgia, una zuffa, un’autobus all’ora di punta. Occorre concentrarsi un attimo per individuare i tre re magi.

“Ah, sì! Devono essere loro: i tre tizi vestiti meglio degli altri. Oh, quindi anche quello con l’elmo e la spada è un re magio. Uh, che sciocco! L’avevo preso per un centurione!” Ma sopratutto uno si chiede: dov’è finito San Giuseppe? È l’anziano barbuto alle spalle della Vergine? Oppure è quell’altro signore, quello quasi del tutto nascosto dal magio nero?

O è stato inghiottito dalla folla ed è definitivamente sparito dalla vista.
A complicare le cose, poi, irrompono pure gli animali. Ci sono ben uno, due, tre, quattro cavalli. E non basta. C’è un cane che abbaia e ringhia contro un signore che porta un pappagallo sul braccio e una scimmia sulla spalla. Il culmine – quasi surreale – si raggiunge sullo sfondo: c’è una giraffa. Una giraffa?!? Sì, una giraffa da cavalcatura (cioè con le briglie sul muso)!
Più si alza lo sguardo, più la tela ci mostra la scena in lontananza, più gli occhi si imbattono in visioni fantasmagoriche. All’orizzonte, contro un cielo che annuncia tempesta, davanti ad un monte lunare, si stagliano due figure enigmatiche. Una è tutta gialla. È una statua? Uno spirito? Uno spettro? L’altra scende le scale, e intanto sembra guardare la prima. Porta una veste rosso vivo, un bagliore caldo, come fosse coperta di brace. Chi sono? Nessuno può dirlo.
Quanti personaggi sono passati per Scolca! Quante storie si agitano nella sua storia! Una calca, una bolgia, una zuffa, un’autobus all’ora di punta.